di  Eric Laurent

I PRINCIPI DELLA PRATICA ANALITICA

Primo principio: La psicoanalisi è una pratica della parola. I due partner sono l’analista e l’analizzante, riuniti in presenza nella stessa seduta psicoanalitica. L’analizzante parla di quello che lo porta lì, la sua sofferenza, il suo sintomo. Tale sintomo è articolato alla materialità dell’inconscio, fatto di cose dette al soggetto, che gli hanno fatto male, e di cose impossibili da dire che lo fanno soffrire. L’analista punteggia quello che dice l’analizzante e gli permette d’intessere la stoffa del suo inconscio. I poteri del linguaggio e gli effetti di verità che permette, quella che si chiama interpretazione, è il potere stesso dell’inconscio. L’interpretazione si manifesta sia sul lato dell’analizzante sia sul lato dell’analista. Tuttavia, l’uno e l’altro non hanno lo stesso rapporto con tale inconscio dato che uno ha già effettuato l’esperienza, l’altro invece no.

Secondo principio: La seduta psicoanalitica è un luogo in cui possono allentarsi le identificazioni più stabili con cui il soggetto è fissato. Lo psicoanalista autorizza questa distanza nei confronti delle abitudini, delle norme, delle regole a cui l’analizzante si assoggetta al di fuori della seduta. Egli autorizza l’interrogarsi radicale sui fondamenti dell’identità di ognuno. Può temperare la radicalità di tale interrogazione tenendo conto della particolarità clinica del soggetto che si rivolge a lui. Non tiene conto di nient’altro. È ciò che definisce la particolarità del posto dello psicoanalista, colui che sostiene l’interrogarsi, l’apertura, l’enigma nel soggetto che va a trovarlo. Egli non si identifica, quindi, a nessuno dei ruoli che il suo interlocutore vuole fargli giocare, né a nessun magistero o ideale già presente nella civiltà. In un certo senso, l’analista è colui che non può essere assegnato a nessun altro posto che non sia quello della questione sul desiderio.

Terzo principio: L’analizzante si rivolge all’analista. Gli attribuisce dei sentimenti, delle credenze, delle attese in reazione a quanto egli dice e desidera agire sulle credenze e sulle attese che egli anticipa. La decifrazione del senso, negli scambi tra analizzante e analista, non è l’unica cosa in gioco. Vi è ciò a cui mira colui che dice. Si tratta di recuperare qualcosa di perduto presso tale interlocutore. Questo recupero d’oggetto dà la chiave del mito freudiano della pulsione. Essa fonda il transfert che annoda i due partner. La formula di Lacan secondo cui il soggetto riceve dall’Altro il suo proprio messaggio in forma invertita include sia il deciframento sia la volontà di agire su colui a cui ci si rivolge. In ultima istanza, quando l’analizzante parla, egli vuole, al di là del senso di quello che dice, raggiungere nell’Altro il partner delle sue attese, delle sue credenze e dei suoi desideri. Ciò a cui mira è il partner del suo fantasma. Lo psicoanalista, illuminato dall’esperienza sulla natura del proprio fantasma, ne tiene conto. Si guarda dall’agire in nome di quest’ultimo.

Quarto principio: Il legame del transfert presuppone un luogo, il “luogo dell’Altro”, come dice Lacan, che non è regolato da nessun altro particolare. È quello in cui l’inconscio può manifestarsi nella più grande libertà di dire e, dunque, di provarne gli inganni e le difficoltà. È pure il luogo in cui le figure del partner del fantasma possono dispiegarsi nei loro giochi di specchi più complessi. Per questo motivo la seduta psicoanalitica non sopporta il terzo e il suo sguardo esterno al processo stesso che è in gioco. Il terzo si riduce a questo luogo dell’Altro. Questo principio esclude, dunque, l’intervento dei terzi autoritari che vogliono assegnare un posto a ciascuno come pure uno scopo già stabilito al trattamento psicoanalitico. Il terzo valutatore si iscrive nella serie dei terzi, la cui autorità lo afferma dall’esterno di quello che è in gioco tra l’analizzante, l’analista e l’inconscio.

Quinto principio: Non esiste cura standard, non esiste un protocollo generale che governerebbe la seduta e la cura psicoanalitica. Freud ha preso la metafora degli scacchi per indicare che vi erano solo delle regole o dei tipi di inizio o di fine di partita. Certo, da Freud in poi, gli algoritmi che formalizzano gli scacchi hanno aumentato la loro potenza. Legati alla potenza di calcolo del computer essi permettono a una macchina di battere un giocatore umano. Questo non cambia il fatto che la psicoanalisi, contrariamente agli scacchi, non può presentarsi sotto forma algoritmica. Lo vediamo per Freud stesso, che ha trasmesso la psicoanalisi con l’ausilio di casi particolari: l’Uomo dei topi, Dora, il piccolo Hans, ecc. A partire dall’Uomo dei lupi, il racconto della cura è entrato in crisi. Freud non poteva più far tenere, nell’unità di un racconto, la complessità dei processi in gioco. Lungi dal potersi ridurre a un protocollo tecnico, l’esperienza della psicoanalisi non ha che una regolarità: quella dell’originalità dello scenario tramite il quale si manifesta la singolarità soggettiva. La psicoanalisi non è, dunque, una tecnica ma un discorso che incoraggia ciascuno a produrre la propria singolarità, la propria eccezione.

Sesto principio: La durata della cura e lo svolgimento delle sedute non possono essere standardizzate. Le cure di Freud hanno avuto delle durate molto variabili. Ci sono state cure di una seduta, come la psicoanalisi di Gustav Mahler. Ci sono pure state cure di quattro mesi, come quella del piccolo Hans, di un anno, come quella dell’Uomo dei topi, di diversi anni, come quella dell’Uomo dei lupi. Da allora lo scarto e la diversificazione non hanno smesso di accrescersi. Inoltre, l’applicazione della psicoanalisi, al di là dello studio, nei dispositivi in cui si distribuiscono cure, ha contribuito alla varietà delle durate della cura psicoanalitica. La varietà dei casi clinici e delle età della vita a cui la psicoanalisi è stata applicata permette di ritenere che la durata della cura ora sia definita al massimo come “su misura”. Una cura è condotta sino a che l’analizzante sia sufficientemente soddisfatto di ciò di cui ha fatto l’esperienza per lasciare l’analista. Ciò che si ha di mira non è l’applicazione di una norma, ma un accordo del soggetto con se stesso.

Settimo principio: La psicoanalisi non può determinare ciò che ha di mira e la sua fine in termini di adattamento della singolarità del soggetto a delle norme, a delle regole, a delle determinazioni standard della realtà. La scoperta della psicoanalisi è anzitutto quella dell’impotenza del soggetto a raggiungere la piena soddisfazione sessuale. Tale impotenza è designata con il termine di castrazione. Al di là di questo, la psicoanalisi, con Lacan, ha formulato l’impossibilità che vi sia una norma del rapporto tra i sessi. Se non vi è soddisfazione piena e se non vi è una norma, a ciascuno non rimane che inventare una soluzione particolare, che si fonda sul proprio sintomo. La soluzione di ciascuno può essere più o meno tipica, più o meno fondata sulla tradizione e sulle regole comuni. Essa può, invece, voler rientrare nell’ambito della rottura o di una certa clandestinità. Ciò non toglie che, nel suo fondo, la relazione tra i sessi non ha una soluzione che possa essere “per tutti”. In questo senso, essa resta marcata dal sigillo dell’incurabile e sempre vi sarà difetto. Il sesso, nell’essere parlante, rientra nel “non tutto”.

Ottavo principio: La formazione dello psicoanalista non può essere ridotta alle norme di formazione dell’università o delle valutazioni delle acquisizioni della pratica. La formazione analitica, da quando è stata stabilita come discorso, si fonda su di un tripode: dei seminari di formazione teorica (para-universitari), il proseguimento da parte del candidato psicoanalista di una psicoanalisi sino al punto ultimo (da cui gli effetti di formazione), la trasmissione pragmatica della pratica nelle supervisioni (conversazione tra pari sulla pratica). Freud ha ritenuto, per un certo tempo, che fosse possibile determinare una identità dello psicoanalista. Il successo stesso della psicoanalisi, la sua internazionalizzazione, le diverse generazioni che si sono succedute da un secolo a questa parte hanno mostrato che questa definizione di una identità dello psicoanalista era un’illusione. La definizione dello psicoanalista include la variazione di tale identità. È questa stessa variazione. La definizione dello psicoanalista non è un ideale, essa include la storia della psicoanalisi stessa, e di quello che è stato chiamato psicoanalista in contesti di discorso distinti.La nomina di psicoanalista include delle componenti contraddittorie. Ci vuole una formazione accademica, universitaria o equivalente, che dipende dalla generale collazione dei gradi. Ci vuole un’esperienza clinica che si trasmette nella sua particolarità sotto il controllo di pari. Ci vuole l’esperienza radicalmente singolare della cura. I livelli del generale, del particolare, del singolare sono eterogenei. La storia del movimento psicoanalitico è quella delle divergenze e delle interpretazioni di tale eterogeneità. Essa fa parte, pure lei, della grande Conversazione della psicoanalisi che permette di dire chi è psicoanalista. Questo dire si realizza tramite delle procedure dentro delle comunità che sono le istituzioni psicoanalitiche. In questo senso, lo psicoanalista non è solo, egli dipende, come il motto di spirito, da un Altro che lo riconosca. Questo Altro non può ridursi a un Altro normato, autoritario, regolamentare, standardizzato.

Lo psicoanalista è colui che afferma di aver ottenuto dall’esperienza ciò che poteva attendersene e, dunque, che afferma di aver superato una “passe”, così come l’ha chiamata Lacan. Vi testimonia del superamento delle sue impasse. L’interlocuzione tramite cui egli vuole ottenere un accordo su questa traversata si fa dentro dei dispositivi istituzionali. Più profondamente, essa si iscrive nella grande Conversazione della psicoanalisi con la civiltà. Lo psicoanalista non è autistico. Non smette di rivolgersi all’interlocutore benevolo, all’opinione illuminata, che egli desidera commuovere e toccare a favore della causa psicoanalitica.

Traduzione: Adele Succetti